Storia della Bambina con La Palla Rossa

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La matassa che sto per proporvi è particolarmente importante per me, poiché riguarda il mio percorso di crescita e di vita. Così con una punta di orgoglio mi dedico questa storia, e ringrazio sentitamente tutti gli uomini della mia vita che mi hanno fatto a pezzi ricordandomi che sono in grado di rimettermi insieme da sola, con infinito amore e affetto, e spesso ingenua inconsapevolezza, mi hanno insegnato che ogni fonte va alimentata e ogni amore non rappresenta solo un unione tra due persone ma un accostamento di anime, di idee e di mondi, che hanno bisogno di auto alimentarsi da soli, per poter vivere nella serenità assieme. 

C’era una volta in un tempo indefinito ma non lontano, una città fredda e un cielo accecante bianco latte. Sotto quel cielo dal unico colore svettavano alti palazzi, ai piedi dei quali quadrati di cortili riempivano li spazi restanti circondati da strade nere di asfalto. In uno di quei palazzi, con le finestre tutte uguali, abitava una bambina con la sua famiglia.

Era una bambina come ce ne sono tante, con i capelli annodati in trecce strette, e calzettoni bianchi. Aveva una palla, di lucida plastica rossa, con cui giocava quando i suoi genitori la lasciavano sola per andare a lavorare. I genitori lavoravano molto, non avevano tempo per giocare con lei e la sua palla rossa, per quello un giorno la bambina che non ne poteva più della solitudine decise di uscire di casa e di andarsi a cercare un compagno di giochi con cui condividere il suo tempo. Scese le scale a perdifiato e ancor prima di aver raggiunto il cortile andò a sbattere contro uno sconosciuto. Era alto e dal fisico possente, pareva un uomo, ma si capiva che anche lui era un bambino. Era tutto sporco di fuliggine e catrame, ma aveva un sorriso bianco splendente e due occhi verdi allegri e intelligenti. La bambina gli si avvicino chiedendogli se voleva giocare con lei, lui non rispose e guardò la palla con disprezzo. Lei sorrise di nuovo e gli andò ancora più vicino, con attenzione però, come se si stesse avvicinando a una tigre che da un momento all’altro avrebbe potuto mangiarla. Lui allora che era un bambino selvatico che nessuno riusciva ad addomesticare, si lasciò un poco andare e rilassato ma senza parlare le prese la mano e se la portò dietro dove lui doveva camminare. Passò un tempo lunghissimo e indefinito, un tempo senza tempo dove esisteva soltanto la bambina attaccata alla mano del suo bambino. La palla di plastica rossa era stata dimenticata, e entrambi si erano dimenticati dei giochi e dei loro genitori, dimenticati del cielo bianco latte, dei palazzi e dell’asfalto c’era soltanto quel legame e niente altro. Stretti assieme andavano avanti nel silenzio più totale, senza accorgersi che di strada non ne avevano percorsa neppure un metro. Fu per quello che un giorno il bambino che era diventato adulto prese la decisione di spezzare quel legame, facendolo così senza parlare e nell’unico modo che sapeva fare. Prese un ascia molto affilata e tagliò di netto il braccio della bambina che urlò disperata, poi con tutta la forza che aveva nel cuore la abbandonò, lasciandola sola nel cortile ai piedi del palazzo dove anni addietro l’aveva incontrata. La bambina all’inizio cercò di rincorrere il suo bambino, ma si accorse presto che era impossibile farlo, in un attimo lui era cresciuto e lei non era più in grado di riconoscerlo. Presto il dolore al braccio scomparve, lasciandone però un altro più acuto e pulsante nel petto, improvvisamente quel dolore le fece ricordare la sua palla rossa, e prese a cercarla con ansia. Fu proprio nel momento in cui le parve di scorgerla abbandonata in un angolo che comparve un principe bello e alto. La bambina lo guardò con diffidenza, era troppo bello per lei, troppo sicuro di se stesso, lui era troppo e lei era troppo poco. Ma il principe aveva un altra idea in testa, li piaceva quella piccola bambina perché gli faceva ricordare il piccolo bambino che viveva in lui. Così le si avvicinò cingendole le spalle e la condusse lontanissimo dal suo palazzo, attraversarono paesi sconosciuti e mari sconfinati, circondati da servitori, vissero in palazzi dagli stucchi dorati. Il principe sommerse la bambina di doni, avverando ogni suo desiderio, assecondando ogni suo capriccio. Allacciata al petto di lui, la bambina fuse così tanto il suo cuore con quello del principe che ben presto diventarono una cosa sola. Ma benché la bambina amasse con ogni fibra di se stessa il principe ogni giorno quando gli si risvegliava accanto a lui, non poteva far a meno di ricordarsi di essere solo una bambina e non una principessa. Fu a causa di ciò che la bambina decise di tornare al suo palazzo a cercare la sua palla rossa; riempì la sua valigia con i ricordi più belli di quella storia e con l’inverno nel cuore si accinse a partire. Il principe quando la vide andarsene cercò disperatamente di fermarla, la supplico in tutte le lingue del mondo, e poi si strusse a tal punto da strapparsi il cuore dal petto lanciandoglielo contro, poi preso dall’ira le strappò una gamba e la rese zoppa maledicendola per sempre.

Il dolore questa volta fu più pieno e straziante, arrancando sulla strada percorse con quell’unica sua gamba tutto il percorso per ritornare a casa. Camminava, e ogni volta che cadeva puntellandosi sul braccio rimasto si rialzava. Era quasi giunta a casa quando si imbatté in un giovane che vedendo la bambina così combinata si mise a ridere a perdifiato. Sentendo la risata argentina del ragazzo all’inizio la bambina rimase silenziosa, triste e indispettita continuò il suo cammino, ma non andò molto lontano perché il ragazzo le si avvicinò e prendendola per la schiena incominciò a sorreggerla sorridendo. La bambina provò a resistergli un primo momento, ma poi lentamente scivolò tra le sue braccia e alzando la testa incrociò gli occhi di lui, blu profondi e infiniti come un mare calmo dopo una tempesta tremenda. Sorrise la bambina, e sorrise anche il fanciullo che la sorreggeva, assieme cominciarono a ridere forte, e stretti riposarono all’ombra di una pineta cullati uno nell’altro. Passarono così molto tempo, il fanciullo ad ascoltare e la bambina a parlare. La bambina raccontava, della sua strada, del suo dolore, della sua palla rossa e della sua casa dove non riusciva a tornare, e il fanciullo in silenzio ascoltava, e si rendeva conto che anche amandola lui non sarebbe mai stato quello di cui la bambina aveva bisogno. Molto tempo il fanciullo rimase ad ascoltare indeciso se andarsene o accettare i ricordi della bambina e rimanere. La bambina dal canto suo più passava tempo con il ragazzo più se ne innamorava e segretamente sognava che lui prendesse a comportarsi come il principe o come qualche altro paladino di qualche suo romanzo preferito, la bambina era piena di sogni e il fanciullo pieno di paura di non essere in grado di realizzarli. Il ragazzo odiava il bambino che aveva staccato il braccio alla bambina e odiava il principe che le aveva tolto la gamba, non poteva immaginare che avrebbe potuto farle prima o poi qualcosa del genere, così un giorno per evitare che tutto questo potesse accadere partì e andò via lontano, lasciando la bambina a dormire distesa in un prato. Al suo risveglio la bambina si ritrovo per l’ennesima volta sola, e presa dal panico cominciò a cercare ovunque il fanciullo, percorse strade e scalò montagne, si consumò a tal punto che l’ultima gamba che le era rimasta alla fine si ruppe e da sola presa dalla rabbia decise di strapparsela lanciandola nell’infinito nella speranza che un giorno il fanciullo venendo a conoscenza di quando aveva sofferto fosse tornato da lei; ma sapeva nel suo profondo che lui non sarebbe mai tornato. Passò anche allora del tempo, venne l’inverno e la neve prese a cadere e la bambina come morta si fece seppellire da quel manto candido decisa ormai a dormire per sempre. Un giorno le passò accanto un pellegrino che si era perduto sul suo cammino, l’uomo dai capelli rossi, si chinò e ripulì la bambina dalla neve che ormai l’aveva completamente sommersa, le tese la mano comprendendo la sua solitudine, così simile alla sua e accudendo la bambina come fosse un animale selvatico a poco a poco l’addomesticò in modo da potersela portare dietro per fargli compagnia. Trascorsero del tempo assieme, parallelamente, come due solitudini che si avvicinano ma non si uniscono mai, come due mondi chiaramente diversi ma che gravitano quasi per caso uno affianco all’altro, entrambi consapevoli che quello stato non sarebbe mai mutato ma ebbri di desiderio di vivere il momento senza pensare troppo a quello che li sarebbe aspettato. Poi come tutto era cominciato finì, il pellegrino fece un ultimo gesto d’amore accompagnando la bambina al cortile del suo palazzo e silenziosamente come era arrivato scomparì chiudendosi alle spalle il cancello del cortile. Fu allora che nuovamente il dolore e la solitudine si fecero sentire, l’ultimo braccio che le era rimasto le si staccò da solo dal corpo, come una foglia secca che abbandona un tronco morto. Scivolò nel pianto e nel sonno in quella che sembrava nuovamente una discesa a picco nell’inferno, abbandonandosi completamente alla sofferenza, al dolore e ai ricordi di tutto quello che aveva passato per poi ritornare senza niente da dove era partita tantissimo tempo prima.

Fu al suo risveglio che la bambina si ricordò della sua palla rossa che silenziosa se ne stava in un angolino abbandonata, rotolando a fatica la raggiunse e vi posò sopra la sua guancia, nel frattempo le lacrime che non avevano mai smesso di scorrere si erano raccolte in una pozzanghera proprio davanti al suo volto. Così , riflessa nel suo stesso pianto, per la prima volta la bambina prese a specchiarsi, dentro alla pozza delle sue lacrime nel fiume del suo dolore la bambina riconobbe riflesso il volto di una donna.

Lunghi capelli ricci le scendevano sulle spalle e occhi neri profondi e tristi splendevano come due stelle su un volto dalla bocca corrucciata, sospirò la bambina che si vedeva per la prima volta, all’inizio si domandò se era effettivamente lei quella bellissima donna, ma poi si dovette riconoscere per forza quando si accorse che anche la donna aveva la testa appoggiata sulla palla rossa. Così guardò con attenzione e si riconobbe. Stette molto a fissarsi in quella pozza. Riconobbe il volto, la forma del naso e ogni onda dei suoi capelli, il collo flessuoso, le clavicole magre e poi con stupore si accorse delle braccia con i polsi fini e le mani graziose, delle gambe e delle caviglie dei piedi con addirittura tutte le unghie. Stupita si domandò se fosse di fronte a un miracolo, poi lentamente capì che l’unico miracolo a cui ella assisteva era la nascita di se stessa da se stessa di nuovo.

Fu così che ammise che era morta, non una ma un infinità di volte, ed era rinata ogni volta, e sarebbe rinata fino a quando sarebbe stata in grado di riconoscersi in quella pozza in quel dolore, in se stessa, poiché quella era l’unica guarigione.

Alzatasi si accorse di poter fare le scale a ritroso e tornare nella sua casa dove ad aspettarla c’erano ancora i suoi genitori. Sorrise la bambina che era diventata una donna, riabbracciò la madre e il padre, mise assieme le sue cose, e decise finalmente di partire nel mondo consapevole che adesso sarebbe stato diverso.

Era consapevole ora, che forse avrebbe nuovamente sofferto, o perso altri pezzi di se stessa, ma sapeva che ciò che perdeva era ciò che non le serviva, che le prove che affrontava erano la strada che ella stessa aveva deciso per se di affrontare, e che non sarebbe mai esistito un dolore tanto forte da sopportare da farle dimenticare di nuovo chi era e cosa voleva. Fu allora che la bambina diventata donna comprese, che non si può desiderare di abbeverarsi nel cuore di qualcun altro quando si conserva un deserto nel proprio, e che ora era pronta a

far scorrere il fiume dentro di sé per alimentare e farsi alimentare non solo da un uomo, ma dall’energia cosmica di tutto l’universo.

Sapeva la donna, che la bambina non se ne sarebbe mai andata, e mai se ne sarebbe andata la sua palla rossa. Sapeva ora la bambina che adesso non sarebbe mai stata più sola perché nel cammino l’ha accompagnava la donna che era diventata.

*** *** ***

Dedicata al mio bambino, al mio principe, al mio dolce fanciullo e al solitario pellegrino, ho sofferto è vero, ma senza quella sofferenza non avrei mai compreso e mai sarei giunta nel mio cammino a ritrovare casa per partire nuovamente nel vento capace di seminare i miei obiettivi.

Grazie

 

il mondo

Storia del campo di grano e della lepre che dipingeva i fiori nel vento…

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 C’era una volta in un paese neanche così lontano un Cammello, molto serio venuto da un paese sconosciuto. Il Cammello aveva acquistato un grande campo di grano che si estendeva su e giù per un colle e una valle. In questo campo di grano, che si perdeva a vista d’occhio per tutta una collina, vivevano un Leprotto, che però credeva di essere una Marmotta, una lenta e saggia Tartaruga e un’agile e flessuosa mamma gatto con la sua piccola micina. La vita scorreva tranquilla tra le spighe di grano, e solo il vento che sferzava dispettoso quel grande mare giallo ogni tanto creava qualche fastidio, ma tutto sommato anche egli era ben accetto, poiché con il suo tocco accarezzava ogni cosa, e insegnava ad ognuno come era bello essere vento, scombinare le gonne, baciare gli sconosciuti e andare dove si voleva senza preoccuparsi di niente. Il Leprotto da parte sua, era felice di vivere nella valle, ma era convinto di essere una marmotta, anche se in realtà non lo era, passava le sue giornate dipingendo fiori rossi fucsia nell’aria e nel cielo, e poi gli piantava in giro nel campo di grano. Anche i fiori erano felici di essere dipinti, e piantati dove la lepre voleva, e tutto scorreva molto serenamente. Poi un giorno il Cammello proprietario del campo di grano, decise di venir a far visita agli abitanti della collina. Arrivato nella valle incontrò per prima il leprotto che dipingeva, salutando disse allegro,

“Buon giorno signor leprotto! Come sta?”

ma la lepre dato che credeva di essere una marmotta, non rispose al cammello, e neppure si girò, continuò a fare il suo lavoro dipingendo fiori rossi fucsia nell’aria, e tra sé e sé pensò che il cammello doveva essersi confuso o aver salutato un qualche nuovo animale che da poco era venuto a vivere nel campo di grano. Il cammello da parte sua, rimase perplesso e senza parole, a quella vista la lenta e saggia tartaruga che passava di lì, gli sorrise e gli disse serena,

“ Non preoccuparti amico! Non è che la lepre è sorda o non ti ha capito è solo che crede di essere una marmotta!”

sbalordito il cammello allora chiamò di nuovo il leprotto ma stavolta chiamandola marmotta, e lei stavolta sentendosi riconosciuta fece un bel sorriso, una riverenza e si avvicinò zompettando agli altri due animali. Fu allora che il cammello tanto perplesso quanto curioso, disse alla lepre:

“Lepre perchè ti fai chiamare marmotta quando tu non lo sei?”

“ Già…” li fece eco la tartaruga “ perchè lo fai?”

“ Già…” si aggiunse al coro la gatta con la sua micina, spuntati all’improvviso “perchè….perchè?”

La lepre rimase un po’ confusa, e incapace di rispondere a quelle incalzanti domande perchè lei si credeva marmotta da tutta la vita, ma effettivamente se tutti gli altri animali gli dicevano il contrario, magari aveva creduto da sempre a una cosa sbagliata…magari…così un po’ agitata e confusa cominciò a balbettare…

“Lo so…lo so amici… voi avete ragione, io non sono una marmotta, non lo sono sicuramente, perchè io sono una tartaruga!”

La Tartaruga sbalordita sgranò gli occhi, poi corrugò la fronte e saggiamente disse:

“ Amica cara, tu non sei una tartaruga, esserlo poi è una gran noia, noi andiamo lente, e non abbiamo certo la pelliccia come te e come il gatto…ti assicuro cara amica che tu non sei una tartaruga!”

Sempre più disperata allora la lepre si rivolse al gatto;

“Gatta, micina, ditemi io sono un gatto allora? Sì abbiamo le zampe simili e anche il pelo e guarda gli stessi baffi! Sì decisamente, ho capito! Io sono un gatto!”

La gatta con dolcezza flessuosa si avvicinò alla lepre e le rispose;

“Mia cara tu non sei gatto, e non sei tartaruga e neppure marmotta se ci teniamo a precisarlo…se fossi gatto rincorreresti i topi fino giù nella tana, e mangeresti ciccia a pranzo e colazione invece di accontentarti di semi e erba fresca, non trovi?”

Fu allora che la lepre scoppiò a piangere disperata, e tutti gli animali, la tartaruga, la gatta e la micina anche il campo di grano e il vento si strinsero attorno alla loro amica.

Il cammello che nel frattempo era rimasto in disparte a pensare si mise a frugare nella sua bisaccia e dopo un po’ scovò uno specchio impolverato. Sorrise il cammello, e poi porse al leprotto lo specchio dicendo;

“ Cara lepre non importa chi tu pensi di essere, chiunque tu fossi noi saremo felici lo stesso, ma guardati tu stessa e da sola riconosci chi vuoi essere, non importa se tartaruga, micio o marmotta, questo regalo portalo con te e quando vorrai ritrovare te stessa non avrai altro da fare che guardarti e dare un senso alla tua ricerca.”

La lepre allora sorrise, asciugandosi le lacrime, iniziò a notare le differenze. Fu allora che la lepre capì che poteva essere tutto e anche niente, e che comunque, chiunque fosse stata, qualsiasi cosa avrebbe fatto lei sarebbe rimasta sempre lepre nel suo cuore, così sorrise di nuovo a se stessa riflessa in quel piccolo specchio e decise da allora di cominciare a conoscersi e poi capire chi voleva essere.

Quando venne sera, tutti gli animali accesero un fuoco, si misero a cenare e ballare attorno a esso, e tutta la valle risplendeva di gioia e anche il vento per una volta era contento.

Questa è la storia della valle e del campo di grano, di una lepre che non sapeva chi era e di una tartaruga, una gatta saggia che con l’aiuto di un cammello venuto da lontano le indicarono la via.

La Principessa che dormiva con un Coccodrillo sulla Pancia

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C’era una volta una Principessa che dormiva con un Coccodrillo sulla sua pancia. La Principessa dormiva in una stanza di un maniero desolato, pieno di disordine e polvere, circondata da grosse tende di velluto rosso in un baldacchino vecchio e malandato. Ovunque  regnava il silenzio e i ragni tutt’attorno avevano tessuto ragnatele magiche dai riflessi argentei, per proteggere ogni angolo di quel luogo senza tempo. Ogni serramento era ben chiuso e sigillato, e nella stanza non penetrava neanche una bava di luce, atta a disturbare quel loro sonno eterno. Il coccodrillo che le stava sulla pancia dormiva beatamente, il muso poggiato sul suo petto, le zampe dolcemente le cingevano i fianchi, aveva un’ espressione benevola e sognante, e di tanto in tanto scuoteva la coda possente come a segnalare che era ancora vivo e non imbalsamato come sembrava, solo allora tutte le squame verdognole del suo corpo si spostavano assecondando i suoi movimenti in un rapido moto di vitalità che si spegneva poi subito nell’eterna fissità del sonno. Anche la principessa dormiva, le sopracciglia scure leggermente aggrottate, aveva un volto talmente bello che pareva dipinto tra i cuscini, ed era  incorniciato da lunghi capelli castano ramati che scendevano in onde sul suo seno, deliziosamente celato da una tunica rossa e consunta, della medesima epoca e colore delle tende che la circondavano. Le sue mani ricadevano inermi ai lati dei fianchi e i piedi rimanevano celati dal grande corpo del coccodrillo che la nascondeva  per la maggior parte del corpo, come una coperta larga, pesante e immensa di carne viva. Erano così, la principessa e il coccodrillo, da un tempo tanto lungo che oramai non lo si conta più. Accadde poi un giorno di primavera che un picchio dall’aria dispettosa e con la cresta alzata, si mise con insistenza a picchiare su un infisso della camera della principessa, preso dalla strana idea che in quel legno marcio si celasse chissà quale tesoro. Così fu che il picchio dall’ostinata curiosità, fece un buco tanto largo da far penetrare nella stanza, un occhio feroce di luce primaverile che colpì con furia la principessa direttamente in faccia. Le palpebre di lei si contrassero istintivamente, e un secondo dopo si schiusero aprendosi. Come se fosse passato solo un secondo da quando prima si era addormentata, con stupore aprì la bocca simile a un bocciolo di rosa, ed emise un flebile sbadiglio, con noncuranza osservò la stanza dove era stata sepolta per secoli e il coccodrillo, benevolo guardiano, che giaceva ancora addormentato sulla sua pancia. La Principessa scivolò su di un fianco e con un incredibile leggerezza si liberò del coccodrillo, che silenziosamente continuò il suo sonno. Attratta da quel faro luminoso brancolò nel buio verso la finestra e a tastoni trovò il pertugio che cercava, con forza spalancò gli infissi, rimanendo immobile accecata da tanta luce che in vita sua neanche ricordava. Fuori le si presentò il mondo, chiassoso nel suo vociare, ci mise un po di tempo per abituarsi alla luce, ma fu tanto sveglia da capire di uscire rapidamente all’esterno in modo da non disturbare il sonno del suo amico coccodrillo, fortunatamente la sua stanza era al pian terreno del grande edificio e si affacciava su un grande giardino, per cui le fu facile scavalcare il cornicione con agilità e trovarsi nel parco del palazzo. Parecchi minuti dopo essersi immersa in quella fulgida luce riuscì a schiudere di nuovo le palpebre e trovandosi nel verde lussureggiante del giardino non pote fare altro che schiudere la bocca stupita. Nel rumoroso mondo al di là della stanza, tutto era vivo e splendente. Le api ronzavano allegramente, e passavano svolazzando di fiore in fiore, il cielo era azzurro e punteggiato di piccole nuvole e alberi immensi con foglie verdi e tenere si ergevano tutto intorno a proteggere il maniero, ormai sommerso da rampicanti e da rovi che stavano letteralmente mangiando l’intonaco e gli infissi di tutta la struttura. La principessa si sentiva vestita di luce, splendida come una fata della foresta, i suoi piedi poggiavano su soffici cuscinetti erbosi e i suoi polmoni pieni di aria fresca gioivano felici in quel dorato primo pomeriggio primaverile. I fiori poi, erano l’intonaco perfetto di quel giardino immenso, mille colori la circondavano e altrettanti profumi la inebriavano. Più si addentrava nel giardino, più felicemente perdeva il senso d’orientamento e la strada per tornare alla sua stanza polverosa. Cammina, cammina, giunse nei pressi di una grande siepe dove un uomo era intento a potare le rose. La principessa si chinò in avanti cercando di scorgere i lineamenti della persona, l’uomo portava un grande cappello con la retina, non riuscendo a scorgerne ne i tratti del viso, ne l’età del suo interlocutore, gentilmente chiese, “buongiorno, buon uomo per chi stai lavorando?” l’uomo non rispose e continuo imperterrito il suo lavoro, la principessa perplessa continuò più volte a cercare di comunicare con lui ma sembrava, ma il signore sembrava completamente sordo alle sue parole. Sconsolata la principessa si sedette sotto un grande salice e rimase in attesa di qualche ispirazione migliore, nel frattempo una piccola ape che aveva osservato tutta la questione le si posò in grembo e amabilmente cominciò a parlarle ronzando: “Dolce principessa..bzzz bzzz, non essere triste il mio amico giardiniere non può sentirti…bzzz bzzz”, “ohh dolce ape” rispose lei sognante, “perchè lui non mi sente e tu mi parli?”  l’ ape rispose “Lui non può sentirti perchè tu non sei più che uno spirito che si è liberato dal peso del tuo coccodrillo, bzz…bzzz…il tuo corpo è ancora nella stanza legato con un filo d’oro alla sua zampa”, “Cosa?”  rispose stupita la principessa, “Ma come è possibile? Io ero sicura di esser uscita nel giardino “, “La tua anima si è liberata dal peso del coccodrillo” seguitò solerte la piccola ape ” Ma il tuo corpo è ancora imprigionato tocca a te adesso che sei libera svegliare il tuo corpo…bzzz…bzzz.. tagliare il filo d’oro e chiedere al coccodrillo di lasciarti andare bzzz..” ,”Ma è assurdo!!! Io dovrei quindi svegliarmi da sola? Ma come? in ogni favola che si rispetti è il principe a svegliare la principessa, dov’è finito il mio?” l’ape sorrise, “Quel che so è che ogni principe che ci ha provato o prima o dopo è stato divorato, tanto che alla fine anche il più coraggioso ha demorso, e penso che adesso solo con le buone e tu stessa puoi correre in tuo soccorso…” La principessa decisamente sconsolata saluto l’ape che leggiadra svolazzò lontana, e con un umore dalle tinte nere si mise in cammino in direzione del maniero. La finestra stava ancora socchiusa ed effettivamente la principessa si accorse che quello che l’ape diceva corrispondeva al vero. La principessa stessa si vide addormentata, ella ancora giaceva sprofondata nel letto e un filo d’oro scintillava a legare l’anima al corpo e il corpo al coccodrillo. Il primo istinto della principessa fu tirare il filo tentando di spezzarlo, ma l’impresa parve impossibile da attuare. Sconsolata, ponendo molta attenzione a ogni suo movimento, l’anima si avvicinò al coccodrillo dallo sguardo benevolo e dolcemente iniziò a picchettarlo sulla corazza. “Coccodrillo…”, chiamava con dolcezza, “Signor coccodrillo…si svegli per cortesia! Potrebbe lasciarmi libera? “, sonnacchioso il coccodrillo apri un occhio, poi l’altro, e fece un gran sbadiglio dopo un iniziale spaesamento spalancò le fauci e disse quasi urlando “Principessa che ci fate qui fuori dal corpo! Rientrate subito là dentro!”, ” No! Coccodrillo” rispose lei con decisione, “Mi sono stufata di aspettare e fuori c’è la primavera quanto ancora vuoi farmi aspettare?”,” Ma principessa…” rispose il coccodrillo, “è il mio compito, il mio dovere, io devo proteggervi!”,” Coccodrillo…” seguitò lei, “…penso che tu lo abbia fatto egregiamente e sicuramente sarai insignito di un ordine regale, ma qui saranno passati secoli dalla prima volta che ci siamo coricati adesso è il tempo, io te ne prego, di svegliarsi e magari di correre qualche rischio”,”Rischio????” gridò il coccodrillo, “Giammai! io non potrei mai, farvi correre qualche rischio!” ,”Coccodrillo!” disse la principessa anche ella gridando e sul punto di perdere la pazienza “Io sono la principessa e te lo ordino, ora alzati lasciami libera e spezza il nostro filo!”. Il coccodrillo con un’ espressione tristissima disse, “Ma principessa se io ti libero tu ti sveglierai e prima o poi tu morirai. Non saresti più felice di vivere qui sotto di me tutta l’eternità, guarda il tuo viso com’è bello, non un giorno è passato sul tuo volto, se io ti libero, tu invecchierai, il tempo un giorno si prenderà il rame dei tuoi capelli, e il tuo volto non sarà più porcellana bianca ma un dedalo di rughe”. La principessa rifletté un attimo, appoggiandosi un dito al mento. Pensò al giardino immenso ai colori ai profumi, al calore, a i fiori profumatissimi, alle api e ai piccoli animali che lo popolavano. Infine pensò anche al giardiniere, non le sarebbe dispiaciuto fermarsi a parlare con lui. Pensò anche al giorno che sarebbe arrivato l’inverno, nel giardino e anche nel suo corpo, l’idea le fece venire freddo ma era una sensazione che per quanto strana, brutta o lontana poteva essere sarebbe stata felice di poter vivere un giorno.

“Caro amico se tu vorrai sarai sempre al mio fianco, tu sei libero dai tuoi impegni nei miei confronti. Morirò un giorno come muore e muta la natura, ma questo ora non importa, sono consapevole che ogni cosa ha il suo ciclo, e ogni cosa ha diritto di vivere e di morire secondo il tempo che la natura e l’universo le hanno riservato”

Il coccodrillo con un dolce sospiro prese il filo d’oro tra le zampe, e messo tra le sue fauci fortemente lo strinse, dopo un iniziale resistenza lo ruppe, in un lampo velocissimo l’anima della principessa fu risucchiata con violenza dentro al corpo addormentato tra i veli del baldacchino. Il coccodrillo si spostò con delicatezza liberando il corpo della principessa che stiracchiandosi si alzò dal letto. Il guardiano sorrise e poi scivolò via sprofondando nell’oscurità, mentre la principessa alzata e vestita di luce prese in mano le redini del suo destino con la decisione di cominciare di nuovo a vivere.

4 Novembre 1999

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Troppi pensieri affollano la mente di colui che non vuole pensare,
gli rimangono appiccicate addosso poesie che lui non voleva risvegliare.

Troppi pensieri,

Io non voglio più fare troppi pensieri!
Voglio smettere di ricordare il passato come fosse ancora reale.
Voglio solo sognare di mangiare orsetti gelatinosi pieni di zucchero,
orsetti che addolciscano una vita di caffè amari …
Tu mi dicevi : la vita è un rondò di anime perse con le gonne gonfie di fumo,
Tu mi dicevi: la vita….

La vita eri tu; seduto su una panchina a leggere il solito libro con la copertina di carta rifatta ogni anno.
La vita era la guerra che non avevamo mai vissuto,
il nostro male fatto di parole e mai di azioni. 
In questa mia vita i treni passano, alzano la polvere, gli altri partono, e noi siamo un fermo immagine alla stazione.

Troppi pensieri…                                                                                      

Troppi pensieri, per coloro che non vogliono più dover pensare.
Ogni volta mi illudo che questo mondo ti inghiotta, che i ricordi stessi ti brucino nel loro caotico girare.
Ma tu non sparisci mai.
Non importa quanto io ti voglia dimenticare,
tu non te ne vai mai.
Così mentre il mondo gira e la gente corre, tu stai fermo a leggere il solito libro, quel libro che parla di Bakuni e di sogni di finti poeti, figli di borghesi.

E tu? …e io? …e noi? 

Fisso la tua figura immobile e la mia sempre sul punto di cadere.
Nelle mie orecchie si affollano cori di pendolari,
che cantano e ripetono:
“…ho voglia di orsetti di gelatina con sopra lo zucchero, ho voglia di parlare e di farmi ascoltare, ho voglia della cioccolata con la vaniglia… ho voglia di andare a riposare accanto a quell’albero e di quel libro con la copertina rifatta”.

Troppi pensieri…
…troppi pensieri!
io non voglio più fare troppi pensieri!
Voglio partire per un paese che non conosco,
Un paese di zingari con occhi che ti ravanano dentro,
Voglio partire roteando i miei stracci,
Per far riempire d’altra musica le mie orecchie,
Per far nascere e crescere dentro di me nuova solitudine diversa da questa

Io voglio partire, e tu vuoi rimanere qui.

Tu sei qui;
nascosto sotto al solito albero con le radici affogate nel cemento,in silenzio guardi il sole che tramonta in fondo alla pianura, illudendoti che quell’impercettibile linea azzurra che borda i campi in lontananza sia il mare e che in fondo sempre più lontano ci sia la tua isola dove finalmente potrai vivere in pace. Il vento spazza questo cielo triste colorato d’acciaio, e io so che mi stai aspettando; Come se tutto fosse un incubo, o un sogno, come se prima o poi dovessi restituirti l’immagine dei tuoi occhi  blu rimasti incisi sulla mia retina per sempre.
Come se ovunque andassi io non potessi vivere senza di te o quanto meno senza il tuo ricordo.

Ogni giorno si alza dalla polvere di quel tempo il pensiero di te,
ogni mio giorno affoga di nuovo tra il vortice acquoso del presente,
emergono i palazzi con le tapparelle azzurre e i campi coltivati di grano
e gli occhi di colui che hai amato e la voce di chi  per sempre , poi, ti ha abbandonato,
spariscono i ricordi in una bolla dai riflessi iridati e rimangono ad asciugarsi sull’asfalto.

Rimango sola come lo ero dapprima, e quei troppi pensieri nella mia solitudine si zittiscono, anche se so che prima o poi so che  ricominceranno a urlare di nuovo.

La storia di Andrea

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Una volta in un tempo lontano viveva un ragazzo, dagli occhi di bosco e dai capelli color del nocciolo…Andrea era il suo nome, era alto e forte, con denti bianchi e una voce dolce come il rumore del fiume che scorre…Lavorava i campi, cantando al grano e ridendo con gli uccelli, chino sull’erba verde coglieva i frutti della sua terra… che amava, perché fatta come lui della stessa sostanza, forte e bella, pura e dura, libera e infinita…Andrea aveva un amore dai riccioli neri, con la pelle bianca e trasparente come la luna, graziosa e sottile come il fiore della magnolia, semplice e sorridente come la margherita di campo, leggera cantava accarezzando l’erba con la punta delle dita…leggera si tuffava nel mare verde e giallo del campo, e coglieva violette ai bordi del pozzo, regalandole ad Andrea che ne faceva collane per lei, il suo amore dai riccioli neri…Un giorno di pioggia, con il vento che soffiava e scompigliava le chiome degli alberi, un gendarme attraversò il bosco e busso alla sua porta, con se aveva una lettera, con una firma d’oro, era la firma del Re.

Andrea ascoltò quel che diceva la lettera, e seppe di dover partire lontano sui monti di Trento per la guerra. Triste salutò il suo bosco e il suo fiume, lentamente percorse il campo pieno di grano maturo, e si chinò sull’erba per assaporare l’odore della sua terra…e Andrea salutò il cielo, salutò le nuvole e il vento, e tristemente salutò il suo amore dai riccioli neri, intrecciandosi a lei in un abbraccio che non avrebbe mai voluto sciogliere…poi partì, senza voltarsi indietro… camminò…camminò…camminò…fino a quando non giunse sui monti, in un paese dove c’era sempre solo il freddo…

I suoi occhi diventarono scuri come la notte…e più camminava, più andava avanti, più si perdeva…e non sapeva più tornare indietro…e più andava avanti più dimenticava…più non aveva idea di chi era e da dove era venuto…e la neve scendeva…scendeva… lentamente dal cielo, ogni giorno, giorno dopo giorno, e copriva con il suo freddo le sue spalle e i suoi capelli, e non c’era più il grano nei campi, o il bosco con il suo profumo, e non c’era il fiume a salutarlo con il suo canto, ne il suo amore con i riccioli neri e la pelle chiara come la luna…e Andrea…giorno dopo giorno, di giorno in giorno, piangeva, piangeva e piangeva, e con il passare dei giorni le lacrime che scendevano dai suoi occhi si fecero ghiaccio, e i suoi capelli diventarono neve, e nelle sue mani si fece strada il gelo…e Andrea un giorno si addormentò, e sogno di raccogliere violette hai bordi del pozzo, e Andrea sognò di gettare riccioli neri nel fondo del pozzo, e sognò il suo amore che dal fondo del pozzo gli gridava…Amore tu sai quanto il pozzo è profondo? Sono nel fondo del fondo, sono la tristezza e il pianto…Andrea sognava, e la neve cadeva e nel silenzio lui si addormentò desiderando di non svegliarsi più e di rimanere lì dentro al gelo per sempre…Intanto laggiù nel bosco anche il suo amore piangeva la sua lontananza, e coglieva violette ai bordi del pozzo, gettandole poi nel cerchio nel profondo…e passavano i giorni, e la pioggia scendeva silenziosa, e passavano i giorni e lei non faceva altro che pensare al suo amore lontano…così decise di partire, e di camminare e camminare, con il vento che le soffiava contro e con la pioggia che le frustava la faccia, camminava e camminava fino in cima ai monti fino ad andare alla guerra…fino ad arrivare nella neve e nel freddo…fino a Trento.

Arrivata lì si mise a scavare con le mani dentro al ghiaccio e trovò il suo Andrea che dormiva la nel fondo…e quando lo trovò accadde un miracolo con le sue labbra sfiorò i suoi capelli di neve, le sue lacrime ghiacciate, le sue mani congelate…e Andrea si svegliò e d’improvviso smise di scendere la neve, e dalla terra sbucarono tanti bucaneve e piccoli ciuffi d’erba verde…il cielo si apri a rivelare il sole e anche il Re che voleva fare la guerra abbagliato da tanto amore si fermò e decise di smetterla e di fare la pace con il suo nemico, e di tornare a casa dai suoi bambini e di raccontare a loro la storia di Andrea e del suo amore dai riccioli neri…

-Andrea- Fabrizio De Andrè

Il principe Cactus

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Tanto tempo fa, in un tempo che anche i nostri nonni hanno dimenticato, sorgeva in cima a un alta scogliera un castello imponente, con massicce torri grigie piene di finestre. Il castello si affacciava sul mare, che spesso era nero e gonfio per le tempeste e il cielo era di sovente squarciato da fulmini e saette, tutt’intorno un vento forte sollevava la sabbia bianca della piccola spiaggia posta ai piedi della scogliera, e forte ogni giorno e ogni notte si sentiva il rumore della risacca.

In quel castello, così grande e austero abitava un tempo una famiglia molto numerosa. La regina e il re che decine di anni prima aveva fatto costruire il castello, erano i genitori di tre coppie di gemelli, e dai loro figli che si erano sposati con le principesse di altri regni, erano nati altrettanti nipoti. Quando il re morì la regina non rimase sola, poiché la sua stirpe era rigogliosa come un albero con molte fronde, e i nipoti nati dai suoi figli erano cresciuti belli e affascinanti e ovunque andassero per il paese erano salutati con gioia. In una notte di maggio, con la luna che splendeva su un mare insolitamente calmo, nacque l’ultimo di questi nipoti, un principe, inspiegabilmente diverso dai suoi fratelli e dai suoi cugini. La madre era morta dandolo alla luce, e il padre pieno d’odio nei confronti di quel figlio mostruoso,  era partito dal castello rinnegandolo e accusandolo di essere portatore di una terribile maledizione. Da li a poco, anche gli altri abitanti del castello se ne erano andati, alcuni con la scusa di conquistare terre più ricche dove il mare non era sempre in tempesta, altri additando esplicitamente il piccolo principe di essere portatore di disgrazia, solo a causa del suo aspetto.

Solo la vecchia regina madre era rimasta accanto al principe. Ma anche se le primavere si susseguivano, l’aspetto del principe non cambiava, anzi più passava il tempo più le cose sembravano peggiorare e il principe diventava sempre più schivo e silenzioso. Dentro e fuori di sé egli provava una rabbia che a volte pareva debordare, e quando questo capitava si chiudeva in una stanza del castello da solo a piangere e a urlare. I suoi pensieri erano mutevoli come il cielo di aprile, e nella forma e nell’aspetto egli non somigliava a un uomo ma sempre più  un cactus.

Era alto, con spalle e petto imponente, qua e la sul suo corpo sporgevano delle spine, e la sua pelle non era rosea ma verde e solcata da vene giallognole. Il volto poi, era una maschera di paura, gli occhi incavati, un naso appena accennato, la bocca pareva un taglio senza labbra e i denti piccoli e un po’storti a malapena si scorgevano. I capelli biondi erano ridotti a un ciuffetto che gli cresceva in cima alla testa. L’unica nota di dolcezza, in quel essere tremendo, era data dagli occhi di un azzurro sfavillante, profondi e brillanti occhi sinceri da bambino.

Anche se con gli anni tutti i parenti del principe avevano abbandonato il castello, il maniero non era certo completamente disabitato, oltre alla regina madre e al principe Cactus vi abitavano molti servi, camerieri, cuochi e dame di compagnia, tutti bene attenti a non disturbare la solitudine del principe e le preghiere della regina madre.

Qualche anno prima della nascita del principe Cactus anche una delle famiglie, che viveva all’interno del castello lavorando come servitù, era stata allietata dalla nascita di un bambino. Un bambino vivace e molto grazioso ma che purtroppo era nato cieco. Il bambino era figlio di uno stalliere e di una cameriera, e il suo nome era Vicktor, crescendo era diventato bello e forte, aveva i capelli rossi e ricci, e un sorriso luminoso, le sue spalle erano larghe e le mani abituate al lavoro duro. Vicktor era l’unico e solo amico del principe Cactus, forse perché era cieco, o come in realtà era davvero, perché Vicktor riusciva a vedere oltre l’aspetto del suo caro compagno di giochi.

Lui e il principe erano cresciuti assieme nel castello, giocando a nascondino tra i vari saloni, e le numerose stanze. Rincorrendosi per i cortili, e duellando con spade di legno nelle sale buie piene di armature impolverate. Vicktor era l’unico di cui il principe si fidava, era l’unico in grado di assaporare il succo vitale che il principe nascondeva nel suo cuore. Purtroppo il principe e il suo amico non potevano passare ogni momento assieme, quindi i giorni in cui Vicktor era costretto a lavorare, passavano lunghi e interminabili per il principe, e in quei momenti era solito fare lunghe esplorazioni nelle sale e nelle camere nel castello.

Uno di quei giorni durante le sue solitarie esplorazioni, il principe si soffermo davanti a una delle tante porte del castello. Era una porta diversa da tutte le altre, la maniglia era vecchia e arrugginita, e sembrava che non fosse mai stata aperta, il principe si attardò davanti alla porta, cercando di ricordarsi quando l’aveva vista in precedenza, la  fissava stranito, come se dietro di essa si nascondesse un segreto, un segreto terribile quanto il suo aspetto.

Dopo molte ore fermo li davanti, decise di passare oltre e di smettere di pensarci, ma ogni giorno la sua mente e il suo corpo inspiegabilmente lo portavano li davanti, alla vecchia porta arrugginita. Così una sera il principe Cactus si rivolse alla vecchia regina madre, chiedendole se sapeva perché quella porta sembrava così malconcia. La regina che solitamente era sempre cara e gentile, si infuriò e gli disse che mai e poi mai avrebbe dovuto aprire quella porta e gli ordino anche di non passarci mai più davanti.

Il principe sconsolato si rivolse all’amico Vicktor, ed egli pur conoscendo bene la volontà della regina consiglio all’amico di seguire ugualmente il suo desiderio e di aprire finalmente quella porta che per lui era diventata un ossessione. Così quella notte, percorsero assieme i lunghi corridoi del castello fino davanti alla porta dalla maniglia arrugginita. Vicktor la sfiorò appena e sentì uno scricchiolio sinistro, intimorito iniziò a tremare, anche il principe era spaventato, ma era troppo attratto da quel che si nascondeva là dietro, prese coraggio e con fermezza pose la sua grande mano verdognola sulla maniglia.

Non appena abbassò la maniglia i due furono investiti da una luce abbagliante. Il principe spinse forte la porta e scoprì che dietro non si celava una stanza ma bensì un enorme e bellissimo giardino fiorito. Il principe e Vicktor si trovarono circondati da fiori di tutte le dimensioni, e di tutti i colori, alberi enormi, e ciuffi d’erba verde. Strabiliati i due ragazzi si avventurarono in quel giardino immenso, premurandosi di lasciare la porta socchiusa in modo da non perdere la via del ritorno. Il cielo che li sovrastava era di un azzurro smaltato senza  nuvole all’orizzonte e tutt’intorno si udiva un vociare allegro di animali e uccelli, ovunque c’erano affascinanti geometrie fantastiche costruite dai cespugli e dai fiori, odori pungenti e inebrianti, suoni allegri di una natura rigogliosa e strabiliante.

I due camminarono a lungo, fino a giungere nei pressi di una piccola radura, stanchi della passeggiata si sederono ai piedi di una grande quercia contemplando il calore del sole che brillava tra le fronde dell’albero. Tutto ad un tratto, sentirono un rumore secco, come un tonfo. I due disturbati e incuriositi si alzarono trafelati per vedere cosa era successo, qualcosa che se ne stava appollaiato sui rami del grande albero che li sovrastava sembrava essere caduto dentro a un cespuglio poco distante da loro. Una ragazza dai capelli neri come la pece si alzò mal messa dal cespuglio, aveva il volto sporco di terra, una veste malconcia e i piedi nudi. La ragazza era molto magra e dalla sua espressione si deduceva che non aveva mai visto in vita sua altri esseri suoi simili. Eppure benché ella non fosse esattamente il ritratto di una grande dama, il principe Cactus sgrano i suoi occhi azzurri nel vederla, colpito da quella singolare bellezza nascosta sotto strati di inedia. Il principe e la ragazza si fissarono per secondi che parevano eterni, lentamente i due si avvicinarono, e per qualche momento furono così vicini che potevano sentire il rumore rispettivo dei loro cuori che battevano, poi il principe colto dalla paura prese sottobraccio Vicktor che inconsapevole di tutto quello che stava accadendo gli rimaneva ancora affianco e correndo a perdifiato per il giardino incantato, trascinandosi dietro l’amico giunse fino alla porta arrugginita che avevano lasciato socchiusa, varcò la soglia e con uno strattone si tirò dietro l’uscio.

Passarono giorni e notti da quell’incontro, giorni lunghi pieni di domande, e notti infinite piene d’angoscia. Il principe non sapeva darsi pace, continuava a pensare a quella giovane, chiusa dietro la porta arrugginita, continuava a domandarsi se lei lo avrebbe voluto, desiderato come lui desiderava lei. Si chiedeva se la giovane potesse amare un uomo con un corpo come il suo. Passarono giorni, e alla fine il principe si costrinse a pensare che quello che aveva visto era solo un sogno, e lo pensò con così tanta convinzione che accettò l’idea di varcare la soglia del giardino da solo, e incontrata la giovane di prendersi con o senza il suo consenso quello che il suo corpo e il suo cuore bramava di avere.

Venne la notte quindi, una notte fredda e nel mare imperava come al solito la tempesta. Il principe si alzò madido di sudore dal suo letto e in vestaglia percorse a grandi falcate le stanze enormi e buie del castello. Davanti alla porta si bloccò pose la sua mano verde sulla maniglia e l’abbassò con veemenza. Dietro alla porta non c’era il sole ma bensì una pioggia fitta, avanzò nel giardino fino alla quercia, e sotto di essa trovò la bella ragazza, che con le mani allacciate alle gambe piangeva. Ogni suo desiderio di possederla svani in quell’istante, fissandola, in tutta la sua fragile essenza, si inginocchio di fronte a lei e sfilatosi la vestaglia la coprì e la tenne al caldo, lei alzo gli occhi pieni di pianto, rivedendolo sorrise poi senza che lui disse niente gli si gettò al collo e benché le spine la ferissero e rimanessero come aghi infilzate nel suo corpo ella lo tenne stretto a sé. In quel momento il principe si sentiva così confuso, non riusciva a capire quello che provava, quello che sentiva, la giovane con il volto ferito dalle spine sollevò il capo e lo fissò teneramente, lui chinò la testa e la baciò. Un bacio lungo, infinito come il tempo, silenzioso sussurrato, un bacio segreto e poi alla fine urlato come l’amore di due amanti che non possono amarsi. Quando il principe riaprì gli occhi la pioggia era cessata e la fanciulla era sparita, disperato invano la cercò per tutto il giardino, in ogni direzione egli si muovesse continuava a ritrovarsi di nuovo di fronte alla porta che lo conduceva al castello.

Sconsolato il principe torno alla sua stanza, e ancora fradicio di pioggia si rimise a letto, convinto che quello che aveva vissuto fosse soltanto un sogno. L’indomani mattina si recò nella sala da pranzo per la colazione, una delle cameriere al suo ingresso lanciò un urlo e fece cadere il vassoio d’argento che portava con la colazione, il principe sbalordito si domandò se nella notte il suo aspetto era riuscito a peggiorare a tal punto da spaventare la cameriera che lo conosceva da così tanto tempo. Scrutò il suo volto dal vassoio d’argento che si era rovesciato a terra, e al pari della cameriera si mise ad urlare. La regina madre accortasi del trambusto si recò velocemente nella sala da pranzo, alla vista del nipote cominciò a piangere disperata. Il principe levò la testa il suo viso era totalmente trasfigurato, non più verde era la sua pelle ma chiara, rosa diafana con piccole lentiggini sparse dove prima c’erano le spine, i capelli biondi con riflessi dorati erano sparsi sulle spalle larghe e muscolose, e sulle guance un accenno di barba rossiccia gli incorniciava il volto di una bellezza che avrebbe potuto accecare qualsiasi uomo o donna.

La regina madre sconsolata si avvicinò al principe e sommessamente così li disse:

“Mio caro anni fa alla morte di tuo nonno io ho ardentemente desiderato trovare qualcuno che fosse in grado di sostituirlo , qualcuno che mi sarebbe rimasto accanto e non mi avrebbe mai abbandonato, un bel giorno tua madre rimase incinta e a quel punto io ho desiderato tanto che quando saresti nato non mi lasciassi mai, chiesi perciò a una strega di trasformarti in un mostro, ella ubbidì alla mia richiesta ma disse che se tu ti fossi sentito come tutti gli altri anche solo per un secondo il tuo aspetto mostruoso sarebbe sparito e saresti tornato quello che davvero sei nella tua essenza, per quello negli anni tutti hanno abbandonato il castello, non per loro volontà ma perché io li ho mandati via, io ho chiuso nel giardino la tua promessa sposa, io ho accecato Vicktor facendoti credere che potevi essere amico solo di chi non poteva vederti…mio caro nipote potrai mai perdonarmi”

Il principe prese il volto della regina tra le mani e sorrise, poi dolcemente le rispose che la perdonava e che le voleva bene come sempre, si domandava solo dove era finita la ragazza del giardino poiché ella era scomparsa e questo lo rendeva molto infelice. La nonna allora si alzo in piedi, chiamò la sua cameriera e ordinandogli di far entrare l’ospite che attendeva in corridoio. Qualche minuto dopo fece il suo ingresso nella sala la bellissima fanciulla del giardino, abbigliata come si confà a una principessa. La regina madre condusse il principe dalla fanciulla poi con aria solenne pronunciò

“Ciò che era stato disfatto ora è fatto di nuovo, siete liberi di vivere la vostra vita ora”

Il principe e la fanciulla si strinsero uno all’altro e così avvinghiati passarono molto tempo, si sposarono poi, e ebbero molti figli, il castello riprese la sua vita e il mare che circondava il maniero si trasformò in una tavola calma permettendo di nuovo ai cugini e amici di tornare a frequentare quelle mura.

Quanto alla regina, poco dopo morì e si ricongiunse con l’amato marito.

Ancora oggi i viandanti raccontano questa storia, la storia del principe che era un mostro e della sua bella ricoperta di stracci chiusa dietro a una porta.

 

 

 

 

 

 

 

 

ecilA

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Ferma,
Stai ferma!
Lasciati guardare,
Lasciati riconoscere,
Fammi capire,
Ferma,
Stai ferma!
Fammi avvicinare,
Fatti toccare,
Rimani ferma!
Io sono te
tu sei me
Il vetro a dividerci
Ferma tu!
Ferma io!
Io ti conosco.
Ma non sei come t’immaginavo.
Ferma,
Io rimango ferma!
Dentro lo specchio,
Fuori lo specchio,
Ferma,
Ferma!
Io, te.
Tu, me.
Tu da una parte.
Io dall’altra.
Ferme,
Rimaniamo ferme!
Non uguali.
Non diverse.
Ferme!
Rimaniamo ferme!
Quel che sono,
Quel che voglio essere.
Il vetro a dividerci,
Occhi negli occhi
non riusciamo a capire
non riusciamo a riconoscere,
chi delle due è il riflesso dell’altra.