La matassa che sto per proporvi è particolarmente importante per me, poiché riguarda il mio percorso di crescita e di vita. Così con una punta di orgoglio mi dedico questa storia, e ringrazio sentitamente tutti gli uomini della mia vita che mi hanno fatto a pezzi ricordandomi che sono in grado di rimettermi insieme da sola, con infinito amore e affetto, e spesso ingenua inconsapevolezza, mi hanno insegnato che ogni fonte va alimentata e ogni amore non rappresenta solo un unione tra due persone ma un accostamento di anime, di idee e di mondi, che hanno bisogno di auto alimentarsi da soli, per poter vivere nella serenità assieme.
C’era una volta in un tempo indefinito ma non lontano, una città fredda e un cielo accecante bianco latte. Sotto quel cielo dal unico colore svettavano alti palazzi, ai piedi dei quali quadrati di cortili riempivano li spazi restanti circondati da strade nere di asfalto. In uno di quei palazzi, con le finestre tutte uguali, abitava una bambina con la sua famiglia.
Era una bambina come ce ne sono tante, con i capelli annodati in trecce strette, e calzettoni bianchi. Aveva una palla, di lucida plastica rossa, con cui giocava quando i suoi genitori la lasciavano sola per andare a lavorare. I genitori lavoravano molto, non avevano tempo per giocare con lei e la sua palla rossa, per quello un giorno la bambina che non ne poteva più della solitudine decise di uscire di casa e di andarsi a cercare un compagno di giochi con cui condividere il suo tempo. Scese le scale a perdifiato e ancor prima di aver raggiunto il cortile andò a sbattere contro uno sconosciuto. Era alto e dal fisico possente, pareva un uomo, ma si capiva che anche lui era un bambino. Era tutto sporco di fuliggine e catrame, ma aveva un sorriso bianco splendente e due occhi verdi allegri e intelligenti. La bambina gli si avvicino chiedendogli se voleva giocare con lei, lui non rispose e guardò la palla con disprezzo. Lei sorrise di nuovo e gli andò ancora più vicino, con attenzione però, come se si stesse avvicinando a una tigre che da un momento all’altro avrebbe potuto mangiarla. Lui allora che era un bambino selvatico che nessuno riusciva ad addomesticare, si lasciò un poco andare e rilassato ma senza parlare le prese la mano e se la portò dietro dove lui doveva camminare. Passò un tempo lunghissimo e indefinito, un tempo senza tempo dove esisteva soltanto la bambina attaccata alla mano del suo bambino. La palla di plastica rossa era stata dimenticata, e entrambi si erano dimenticati dei giochi e dei loro genitori, dimenticati del cielo bianco latte, dei palazzi e dell’asfalto c’era soltanto quel legame e niente altro. Stretti assieme andavano avanti nel silenzio più totale, senza accorgersi che di strada non ne avevano percorsa neppure un metro. Fu per quello che un giorno il bambino che era diventato adulto prese la decisione di spezzare quel legame, facendolo così senza parlare e nell’unico modo che sapeva fare. Prese un ascia molto affilata e tagliò di netto il braccio della bambina che urlò disperata, poi con tutta la forza che aveva nel cuore la abbandonò, lasciandola sola nel cortile ai piedi del palazzo dove anni addietro l’aveva incontrata. La bambina all’inizio cercò di rincorrere il suo bambino, ma si accorse presto che era impossibile farlo, in un attimo lui era cresciuto e lei non era più in grado di riconoscerlo. Presto il dolore al braccio scomparve, lasciandone però un altro più acuto e pulsante nel petto, improvvisamente quel dolore le fece ricordare la sua palla rossa, e prese a cercarla con ansia. Fu proprio nel momento in cui le parve di scorgerla abbandonata in un angolo che comparve un principe bello e alto. La bambina lo guardò con diffidenza, era troppo bello per lei, troppo sicuro di se stesso, lui era troppo e lei era troppo poco. Ma il principe aveva un altra idea in testa, li piaceva quella piccola bambina perché gli faceva ricordare il piccolo bambino che viveva in lui. Così le si avvicinò cingendole le spalle e la condusse lontanissimo dal suo palazzo, attraversarono paesi sconosciuti e mari sconfinati, circondati da servitori, vissero in palazzi dagli stucchi dorati. Il principe sommerse la bambina di doni, avverando ogni suo desiderio, assecondando ogni suo capriccio. Allacciata al petto di lui, la bambina fuse così tanto il suo cuore con quello del principe che ben presto diventarono una cosa sola. Ma benché la bambina amasse con ogni fibra di se stessa il principe ogni giorno quando gli si risvegliava accanto a lui, non poteva far a meno di ricordarsi di essere solo una bambina e non una principessa. Fu a causa di ciò che la bambina decise di tornare al suo palazzo a cercare la sua palla rossa; riempì la sua valigia con i ricordi più belli di quella storia e con l’inverno nel cuore si accinse a partire. Il principe quando la vide andarsene cercò disperatamente di fermarla, la supplico in tutte le lingue del mondo, e poi si strusse a tal punto da strapparsi il cuore dal petto lanciandoglielo contro, poi preso dall’ira le strappò una gamba e la rese zoppa maledicendola per sempre.
Il dolore questa volta fu più pieno e straziante, arrancando sulla strada percorse con quell’unica sua gamba tutto il percorso per ritornare a casa. Camminava, e ogni volta che cadeva puntellandosi sul braccio rimasto si rialzava. Era quasi giunta a casa quando si imbatté in un giovane che vedendo la bambina così combinata si mise a ridere a perdifiato. Sentendo la risata argentina del ragazzo all’inizio la bambina rimase silenziosa, triste e indispettita continuò il suo cammino, ma non andò molto lontano perché il ragazzo le si avvicinò e prendendola per la schiena incominciò a sorreggerla sorridendo. La bambina provò a resistergli un primo momento, ma poi lentamente scivolò tra le sue braccia e alzando la testa incrociò gli occhi di lui, blu profondi e infiniti come un mare calmo dopo una tempesta tremenda. Sorrise la bambina, e sorrise anche il fanciullo che la sorreggeva, assieme cominciarono a ridere forte, e stretti riposarono all’ombra di una pineta cullati uno nell’altro. Passarono così molto tempo, il fanciullo ad ascoltare e la bambina a parlare. La bambina raccontava, della sua strada, del suo dolore, della sua palla rossa e della sua casa dove non riusciva a tornare, e il fanciullo in silenzio ascoltava, e si rendeva conto che anche amandola lui non sarebbe mai stato quello di cui la bambina aveva bisogno. Molto tempo il fanciullo rimase ad ascoltare indeciso se andarsene o accettare i ricordi della bambina e rimanere. La bambina dal canto suo più passava tempo con il ragazzo più se ne innamorava e segretamente sognava che lui prendesse a comportarsi come il principe o come qualche altro paladino di qualche suo romanzo preferito, la bambina era piena di sogni e il fanciullo pieno di paura di non essere in grado di realizzarli. Il ragazzo odiava il bambino che aveva staccato il braccio alla bambina e odiava il principe che le aveva tolto la gamba, non poteva immaginare che avrebbe potuto farle prima o poi qualcosa del genere, così un giorno per evitare che tutto questo potesse accadere partì e andò via lontano, lasciando la bambina a dormire distesa in un prato. Al suo risveglio la bambina si ritrovo per l’ennesima volta sola, e presa dal panico cominciò a cercare ovunque il fanciullo, percorse strade e scalò montagne, si consumò a tal punto che l’ultima gamba che le era rimasta alla fine si ruppe e da sola presa dalla rabbia decise di strapparsela lanciandola nell’infinito nella speranza che un giorno il fanciullo venendo a conoscenza di quando aveva sofferto fosse tornato da lei; ma sapeva nel suo profondo che lui non sarebbe mai tornato. Passò anche allora del tempo, venne l’inverno e la neve prese a cadere e la bambina come morta si fece seppellire da quel manto candido decisa ormai a dormire per sempre. Un giorno le passò accanto un pellegrino che si era perduto sul suo cammino, l’uomo dai capelli rossi, si chinò e ripulì la bambina dalla neve che ormai l’aveva completamente sommersa, le tese la mano comprendendo la sua solitudine, così simile alla sua e accudendo la bambina come fosse un animale selvatico a poco a poco l’addomesticò in modo da potersela portare dietro per fargli compagnia. Trascorsero del tempo assieme, parallelamente, come due solitudini che si avvicinano ma non si uniscono mai, come due mondi chiaramente diversi ma che gravitano quasi per caso uno affianco all’altro, entrambi consapevoli che quello stato non sarebbe mai mutato ma ebbri di desiderio di vivere il momento senza pensare troppo a quello che li sarebbe aspettato. Poi come tutto era cominciato finì, il pellegrino fece un ultimo gesto d’amore accompagnando la bambina al cortile del suo palazzo e silenziosamente come era arrivato scomparì chiudendosi alle spalle il cancello del cortile. Fu allora che nuovamente il dolore e la solitudine si fecero sentire, l’ultimo braccio che le era rimasto le si staccò da solo dal corpo, come una foglia secca che abbandona un tronco morto. Scivolò nel pianto e nel sonno in quella che sembrava nuovamente una discesa a picco nell’inferno, abbandonandosi completamente alla sofferenza, al dolore e ai ricordi di tutto quello che aveva passato per poi ritornare senza niente da dove era partita tantissimo tempo prima.
Fu al suo risveglio che la bambina si ricordò della sua palla rossa che silenziosa se ne stava in un angolino abbandonata, rotolando a fatica la raggiunse e vi posò sopra la sua guancia, nel frattempo le lacrime che non avevano mai smesso di scorrere si erano raccolte in una pozzanghera proprio davanti al suo volto. Così , riflessa nel suo stesso pianto, per la prima volta la bambina prese a specchiarsi, dentro alla pozza delle sue lacrime nel fiume del suo dolore la bambina riconobbe riflesso il volto di una donna.
Lunghi capelli ricci le scendevano sulle spalle e occhi neri profondi e tristi splendevano come due stelle su un volto dalla bocca corrucciata, sospirò la bambina che si vedeva per la prima volta, all’inizio si domandò se era effettivamente lei quella bellissima donna, ma poi si dovette riconoscere per forza quando si accorse che anche la donna aveva la testa appoggiata sulla palla rossa. Così guardò con attenzione e si riconobbe. Stette molto a fissarsi in quella pozza. Riconobbe il volto, la forma del naso e ogni onda dei suoi capelli, il collo flessuoso, le clavicole magre e poi con stupore si accorse delle braccia con i polsi fini e le mani graziose, delle gambe e delle caviglie dei piedi con addirittura tutte le unghie. Stupita si domandò se fosse di fronte a un miracolo, poi lentamente capì che l’unico miracolo a cui ella assisteva era la nascita di se stessa da se stessa di nuovo.
Fu così che ammise che era morta, non una ma un infinità di volte, ed era rinata ogni volta, e sarebbe rinata fino a quando sarebbe stata in grado di riconoscersi in quella pozza in quel dolore, in se stessa, poiché quella era l’unica guarigione.
Alzatasi si accorse di poter fare le scale a ritroso e tornare nella sua casa dove ad aspettarla c’erano ancora i suoi genitori. Sorrise la bambina che era diventata una donna, riabbracciò la madre e il padre, mise assieme le sue cose, e decise finalmente di partire nel mondo consapevole che adesso sarebbe stato diverso.
Era consapevole ora, che forse avrebbe nuovamente sofferto, o perso altri pezzi di se stessa, ma sapeva che ciò che perdeva era ciò che non le serviva, che le prove che affrontava erano la strada che ella stessa aveva deciso per se di affrontare, e che non sarebbe mai esistito un dolore tanto forte da sopportare da farle dimenticare di nuovo chi era e cosa voleva. Fu allora che la bambina diventata donna comprese, che non si può desiderare di abbeverarsi nel cuore di qualcun altro quando si conserva un deserto nel proprio, e che ora era pronta a
far scorrere il fiume dentro di sé per alimentare e farsi alimentare non solo da un uomo, ma dall’energia cosmica di tutto l’universo.
Sapeva la donna, che la bambina non se ne sarebbe mai andata, e mai se ne sarebbe andata la sua palla rossa. Sapeva ora la bambina che adesso non sarebbe mai stata più sola perché nel cammino l’ha accompagnava la donna che era diventata.
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Dedicata al mio bambino, al mio principe, al mio dolce fanciullo e al solitario pellegrino, ho sofferto è vero, ma senza quella sofferenza non avrei mai compreso e mai sarei giunta nel mio cammino a ritrovare casa per partire nuovamente nel vento capace di seminare i miei obiettivi.
Grazie